BERNARDINO PULIGA: LE IMPRESE EROICHE, IL TITOLO DI CAVALIERE, LA VICENDA UMANA

GIACOMO FLORIS
Alla fine del XVI secolo la Baronia di Posada si trovava immersa in una grave crisi dovuta a differenti cause contestuali, tra cui la lontananza del potere regio e di quello signorile, i fenomeni naturali avversi, dovuti alla presenza continua di paludi e territori malsani, e le continue incursioni barbaresche. Tutto questo, come indicano le fonti, portò all’abbandono progressivo della baronia, la quale si trovò senza uomini capaci di lavorare la terra e dedicarsi alla difesa delle proprie case.
La prima vittima di questi fattori fu la classe commerciale che aveva continuato a operare nel porto di Posada sino ai primi decenni del 1500. Scomparsi i mercanti, gli uomini ritornarono all’agricoltura e a forme di aggregazione sociale gerarchizzate. Al vertice di questa struttura si trovava il procuratore feudale e, sotto di lui, una serie di ufficiali baronali provenienti dalla classe locale dei printzipales. Questi ultimi si dedicavano all’amministrazione dell’allodio baroniese e/o alla difesa del territorio, molto spesso a proprie spese. Per le ingenti somme che mettevano a disposizione del feudatario o della Corona, i membri principali erano ricompensati con alcuni privilegi da parte del Sovrano, che così riconosceva anche il loro status.
Uno di questi privilegi era il cavalierato ereditario introdotto in Sardegna a seguito della conquista Catalano-Aragonese nel 1323-1326. Di questo titolo fu omaggiato anche Bernardino Puliga, come riconoscimento elargito per la sua nobile discendenza e soprattutto per aver difeso dagli attacchi saraceni, diverse volte e a sue spese, l’intera Baronia e la città di Siniscola.
I documenti qui trascritti e regestati fanno parte del fascicolo conservato presso l’Archivio della Corona di Aragona a Barcellona. Tali carte sono inerenti alla richiesta e alla successiva concessione del titolo militare e dello stemma a suo tempo consegnato a Bernardino Puliga. Il fascicolo consta di diversi documenti che narrano l’iter procedurale seguito per arrivare a ottenere tale riconoscimento.
La prima richiesta spettava direttamente al futuro beneficiario, il quale personalmente si dirigeva al sovrano o al viceré per essere insignito del titolo, allegando informazioni sui trascorsi familiari, sulle gesta compiute a servizio della Corona, e la dichiarazione dei beni economici personali e familiari che gli potessero garantire una vita more nobilium.
Una volta che il sovrano riceveva la supplica, veniva avviata la pratica e la relativa inchiesta a livello locale, con il compito di appurare se quanto dichiarato dal beneficiario fosse corrispondente al vero[1].
Confermati tutti i dati il viceré li inviava al Consiglio Supremo d’Aragona. Questa magistratura, la cui giurisdizione investiva il Regno di Sardegna, concedeva o negava il suo benestare alla richiesta, per poi rigirarla al sovrano con tutte le considerazioni del caso[2].
Accolta la richiesta favorevole del Consiglio Supremo d’Aragona, il sovrano ne informava, attraverso carta reale, il viceré di Sardegna. Questo documento, noto come cartilla de armaçon, era l’ordine con cui si dava la facoltà al governatore affinché armasse cavaliere il concessionario, a patto che l’investitura fosse portata a termine entro l’anno dalla data di emissione della cartilla, pena la perdita del provvedimento e del relativo titolo[3].
Il viceré investiva quindi solennemente il concessionario attraverso il rito medievale dell’investitura cavalleresca con la spada, gli speroni e l’omaggio. Dopo tale cerimonia, che di solito avveniva a Cagliari, il re rilasciava il diploma ufficiale con il quale si rendeva manifesto a tutti che il nuovo beneficiario apparteneva alla classe aristocratica, per cui gli era concessa la facoltà di intitolarsi e presentarsi pubblicamente come cavaliere, di adottare uno scudo araldico e il diritto di trasmettere titolo e stemma ai propri eredi[4].
Non siamo a conoscenza circa l’uso dello stemma da parte di Bernardino Puliga, non essendo arrivata ai nostri giorni nessuna evidenza. Nonostante tutto, siamo risusciti a ricostruirne l’aspetto partendo dalla descrizione presente nel privilegio di concessione del titolo di cavaliere:
Scudo bianco, nella parte superiore d’azzurro e nella parte inferiore al mare ondoso sul quale nuota un uccello nero dalla fronte bianca, chiamato in lingua sarda Puliga. Esternamente allo scudo sulla parte destra (sinistra per chi guarda) è presente un vessillo rosso contenete una mezzaluna, mentre sulla parte sinistra (destra per chi guarda) un vessillo d’oro e al centro una mezzaluna rossa. Chiude tutto un elmo serrato, di ferro, collocato nella parte superiore, dal quale si dipartono festoni neri, rossi, rossastri, bianchi e d’orati, da cui si diparte un altro vessillo bianco con la mezzaluna rossa al centro[5].
L’ultimo documento presentato è di tutt’altro genere, ci riporta alla parte più intima e umana di Bernardino Puliga[6]. Si tratta dell’atto che attesta da una parte la sua morte, avvenuta a Bitti nel 1667, e dall’altra riassume alcune informazioni sul suo ultimo testamento, redatto sempre a Bitti l’anno precedente.
Un documento intimo che contiene le disposizioni riguardanti la salvezza della sua anima, sotto forma di donazioni post mortem in beneficio della Santa Madre Chiesa e da cui carpiamo alcune informazioni sulla sua vita.
Non conosciamo con sicurezza i motivi che lo costrinsero a trasferirsi a Bitti. Sappiamo invece che questo centro già dalla seconda metà del XVI secolo, stava diventando, a differenza della Baronia di Posada, un polo di attrazione per la nobiltà locale e terriera. È probabile che il Puliga, conoscendo bene la situazione di abbandono in cui versava il territorio baroniese, abbia preferito investire verso l’entroterra, e trasferire beni e affetti al di là del Montalbo. Sicuramente, come dimostrano i pochi dati del testamento, fu una scelta dettata dalla necessità. Infatti, Bernardino Puliga non dimenticò mai, neanche in punto di morte, le sue origini, i luoghi che l’hanno visto nascere e combattere, la sua gente. I legati pro anima, la maggior parte dei lasciti testamentari sono, infatti, destinati alle diverse chiese di Posada, elencate ciascuna con i nomi dei santi titolari, e alle quali si aggiungeva la veneranda chiesa, ex convento francescano, di Nostra Signora degli Angeli a Torpé.
Davanti alla morte, tutti gli uomini siamo uguali, si ripercorrono a ritroso le tappe della vita e riaffiorano i ricordi nostalgici dei luoghi familiari, delle tradizioni, della fede.
Non è forse un caso se scelse di essere sepolto nella co-aggiunta chiesa parrocchiale di San Giorgio, nella cripta della cappella nobiliare dedicata alla Vergine Purissima. Culto mariano fortemente sostenuto dai padri francescani, alla pari di quello della Vergine degli Angeli, e dalla Corona spagnola, i quali incoraggeranno per tutto il territorio del regno la costruzione di cappelle o chiese, come rispettivamente a Bitti e Lodè.

[1] Si veda il documento n.5
[2] Si veda al proposito il documento n. 1
[3] Si veda documento n. 2
[4] Si veda documento n.3
[5] Si veda documento n. 4
[6] Si veda documento n. 6
2 risposte
Non vorrei aver frainteso, ma mi pare che si confondano due presunti Bernardino. Quello che ebbe ribadito il cavalierato che la sua famiglia a Sassari aveva fin dal 1440 era Bernardino senior che nel 1581 sconfisse i saraceni a Siniscola. Quello che morì a Bitti nel 1667 doveva essere un altro Bernardino, perché morto 86 anni dopo l’impresa di Bernardino “mannu” che già nel 1572 fu ammesso allo stamento militare. Probabilmente erano zio e nipote.
Nonno e nipote volevo scrivere