Tintinnatos di Siniscola, contributo sull’origine e il significato di una maschera.

Siniscola, Casa Farris-Tedde, 4 MAGGIO 2025
Antonello Pipere
Ringrazio vivamente l’associazione Sos Tintinnatos per l’invito al loro primo convegno in presenza degli amici Caterina Ortu, di Gianmario Sedda e di Antonio Murru. Io forse non avrei titoli per intervenire su questo interessante tema, anche perché si tratta di un aspetto suggestivo e allo stesso complesso dell’identità sarda, materia per specialisti: glottologi, etnografi o antropologi. Sono dell’avviso che bisogna lasciare sempre la parola ai tecnici, agli esperti. Di fronte a un fenomeno così complesso è anche necessario un approccio multidisciplinare che possa avvalersi di più punti di vista e di un esame rigoroso di fonti eterogenee.[1] Mi limiterò a esprimere qualcosa in quanto insegnante e cittadino attento e in vario modo divulgatore della cultura locale con il proposito che questo modesto contributo possa in seguito dare luogo a una trattazione scientificamente più compiuta e esaustiva come potrebbe essere anche una tesi di laurea o un saggio più documentato.
Dei Tintinnatos ho un ricordo che viene dall’infanzia trascorsa per diversi periodi di tempo con mia nonna, in su ichinu e Sant’Antoni, alla fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. Ci riprendeva quando il viso si sporcava, talvolta con il fango o la fuliggine o thithiedatu «comente unu tintinnatu», imbrattato con il colore nerastro del carbone. Sempre in questo ambito conserviamo, nella memoria, confuse, sfumate visioni dell’infanzia di un carnevale vissuto nelle viuzze, dove ricordo sparute comitive di persone, maschi e femmine in modo indistinto, che entravano nelle case accompagnate dai suoni dei campanacci e ospitati per assaporare fusones e urilletas e, talvolta, ava ‘e lardu.
Questo carnevale, sfumato tra i ricordi dell’infanzia, e confermato anche da testimonianze orali più recenti[2], si era interrotto probabilmente negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, gli anni che hanno segnato un vero e proprio spartiacque storico non solo nella cultura e nella civiltà sarda. In quegli anni il boom economico ha portato cambiamenti vistosi nelle nostre comunità. Si è passati da un’economia chiusa a un’economia di mercato. Il capitalismo è entrato nelle nostre case con gli agi del consumismo, ma inducendo inesorabilmente al sacrificio di quel mondo semplice e autentico che si era affermato fino ad allora. I cambiamenti erano per così dire epocali e hanno influito sul costume e sulla persistenza di tradizioni secolari: una decisa emigrazione all’estero e l’arrivo dell’acqua corrente e la corrente elettrica nelle abitazioni, poi la televisione e l’avvento della plastica e le prime auto, aspetti segnanti e dirompenti di un mondo diverso che hanno indotto improvvisamente in nuove abitudini e un nuovo stile di vita[3]. Cambiavano così diversi aspetti della vita sociale insieme ai momenti e alle relazioni che scandivano la vita comunitaria del paese. Con le cavalcate sarde nascevano i primi gruppi folkloristici e cominciava l’ostentazione della sardità e con lei anche il finis sardiniae (Mannuzzu, 1998), la fine di una civiltà secolare fino ad allora conosciuta. Prima ignari protagonisti, infine spettatori e presentatori, divulgatori di un mondo che inesorabilmente scompariva. Da su ballu tundu comunitario nelle piazzette o nelle case, a esibitori di sardità, infine l’odierna contemporaneità con il folklore estivo sempre più ingenuamente ostentato nelle sagre e nelle sfilate ancor più lontane dalle ricorrenze religiose tradizionali.

Anche la scuola locale sembrava orientare verso una certa “modernità”. Negli anni Settanta un nuovo carnevale era stato proposto dagli insegnanti della scuola media, con i carri e le maschere in cartapesta che imparammo a costruire con un’incerta impalcatura in fil di ferro e con la carta per giornali incollata e rappresa con dei collanti liquidi. Il nuovo, ingenuamente, sostituiva il vecchio, l’antico tramandato da secoli: un po’ come nella dimensione finanziaria, quando la moneta nuova scaccia la vecchia. La differenza tra il vecchio e il “moderno” carnevale era notevole. Da una parte i carri satirici, la rappresentazione figurata di una scena o di un personaggio in chiave comica e umoristica; dall’altra un’espressività basata sulle persone, protagonisti anonimi di un camuffamento, uomini e donne con un’inversione del genere, l’umanità che scompare e riappare in forme irriconoscibili con indumenti dimessi e abbandonati, batiles, cenci ritrovati casualmente in casa o negli ovili (issallos, mucatores, cambales, socas, corrias, loros, càmpanas, marrazzos e così via) e l’immancabile ricorso alla fuliggine ottenuta dal sughero annerito o dal carbone conservato in casa. Il richiamo più evidente era alle origini di quel mondo agropastorale che segnava nella fisionomia la nostra origine, come in molte altre realtà del Nuorese. Questo mondo primitivo e primordiale appariva nei movimenti scomposti, nel procedere disordinato, nella gestualità e nei suoni di un ripetitivo scampanellio o nelle voci ora allarmanti e dissonanti. Lo spavento dello spettatore era occasione di riso, di festa, la sorpresa e il divertimento collettivo erano una costante.
Potrebbe essere interessante un confronto anche figurativo tra il primo e recente carnevale. Da una parte le maschere che riproducono persone o fatti della cronaca in chiave grottesca, con una costruzione figurativa evoluta, attualizzante, estranea all’espressività sarda. Anche la stessa satira che vediamo rappresentata nei carri è un aspetto che invece i Sardi esprimevano più efficacemente nella poesia estemporanea, nell’oralità dei versi e nelle melodiche sonorità dei canti a tenores. Nel caso dei Tintinnatos e di altre maschere sarde il mascheramento coinvolge direttamente la persona e il suo travestimento in maschio o in femmina: un atto liberatorio e dissacratorio allo stesso tempo, in contrasto con altri momenti di una vita comunitaria moralmente rigida, sorvegliata da regole non scritte, da antiche convenzioni religiose e comunitarie[4]. Ancora oggi il carnevale rappresenta un momento di distrazione, di temporaneo allontanamento dal tempo ordinario.

Negli Anni Ottanta e Novanta abbiamo avuto l’occasione di conoscere le letture di Dolores Turchi, recentemente insignita dall’ISRE di Nuoro per la ricerca sulle tradizioni locali insieme ad altre personalità del Nuorese, la studiosa che non di rado mi capitava di incontrare a Nuoro nella sezione sarda della Biblioteca “S. Satta” quando dirigeva la rivista Sardegna Antica e Sardegna Mediterranea. Quello che lasciava intendere la Turchi nel suo lavoro di divulgazione delle tradizioni popolari, alle quali aveva dedicato diversi studi e interventi, è che c’era un fondo comune di carattere dionisiaco alle maschere del nuorese[5]. Era una chiave di lettura suggestiva che indirettamente collegava la civiltà sarda ai primordi della civiltà greca. Il dionisiaco era anche da intendere come un fondo mediterraneo inconsapevole affiorante senza inibizioni formali in qualsiasi luogo e momento della storia, anche in assenza di attestazioni di continuità più confortanti sotto il profilo scientifico con le origini e il passato. In questo senso va vista la complessità del carnevale barbaricino e d’altronde di quello siniscolese ¬ nel quale quest’ultimo va contestualizzato ¬, nel senso di individuare e situare un’origine precisa attraverso le risultanze storiche e figurative. Bisogna in ogni caso partire dalle fonti edite e inedite; dal materiale che possediamo si potrebbe avanzare un’interpretazione convincente, ma che potrebbe essere successivamente approfondita con ulteriori ricerche. Tra le fonti edite c’è l’attestazione ampiamente nota dell’Abate Angius nel Dizionario del Casalis[6], che riportiamo integralmente:
Nel carnevale usano due sorta di mascheramenti, uno detto a tintinnatu dai molti sonagli che tengono pendenti dalla cintura, l’altro della partoriente. Nel primo mettono al rovescio tutte le robe, e gli uomini le vestimenta delle donne, le donne quelle degli uomini, nel secondo si figura una donna gravida. Questa maschera con la comitiva entra nelle case, fa i più strani contorcimenti come fosse nello spasimo de’ dolori, e i compagni domandan lardo per sollevarla, e come l’hanno ricevuto se ne partono. I compagni del tintinnatu arrestano il pastore che venga all’incontro e lo conducono a casa, né si ritirano prima di esser rigalati di lardi, salsumi, o ravioli.
Si tratta di una descrizione di grande interesse storico perché “fotografa” verbalmente, una precisa iconografia del carnevale siniscolese formulata in un tempo ben preciso con un’immagine perspicua. Per questo costituisce un punto fermo nella storia del carnevale locale, perché ferma definitivamente un’immagine della sua esistenza in un dato momento; allo stesso tempo permette il recupero, la riscoperta, esattamente come ha fatto dal 2015 l’associazione de Sos Tintinnatos, che ha anche pubblicato un breve saggio di carattere divulgativo che potrà essere ulteriormente implementato anche con le relazioni di questo convegno. Purtroppo siamo in assenza di altre fonti storiche (fotografiche o documentarie). Rimangono inoltre alcune testimonianze orali[7], pochi riferimenti bibliografici[8], ma anche questi frammentari.
Si può anche agevolmente notare che il tempo dell’Angius è diverso dal nostro. Le forme della socialità erano differenti. Come erano differenti le abitazioni, la struttura stessa dell’abitato storico. L’andare di casa in casa è diverso dal partecipare alle “sfilate”. Il concetto di sfilata, come corteo in costume e ostentazione di una propria identità, è estraneo alla realtà sarda; il corteo pubblico era di carattere rituale, religioso, processionale o strettamente legato ai tempi della festa. Non bisogna perciò dimenticare che alla riscoperta delle maschere è seguita la folklorizzazione, l’esibizione al pubblico nei modi in cui si assiste a uno smarrimento dei significati e delle forme originari.

Come anche potevano essere differenti dal passato gli indumenti impiegati per il carnevale al tempo dell’Angius. Dalle risultanze sulle tradizioni e il costume locale possiamo annoverare il pellame conciato, o l’orbace, brani di fresatas, di panni in lino o in lana, o scialli in seta. Quanto di più differente rispetto alla rappresentazione odierna che si avvale di tessuti che hanno un’origine novecentesca. In questo senso gli attuali tintinnatos sono anche il prodotto dei cambiamenti storici che hanno interessato la storia del costume, con mutamenti analoghi avvenuti in tutti i centri del nuorese nelle fogge dell’abbigliamento tradizionale. Ritornando alle informazioni del brano dell’Angius: appare per la prima volta il termine “a tintinnatu”, nella forma di una locuzione avverbiale, “alla maniera di”, da un verbo di origine latina tintinnare impiegato anche come sostantivo (“su tintinnatu”). La parola ha una sua espressività onomatopeica, richiama il suono del tintinnio dei sonagli. Nel linguaggio popolare è invalsa l’accezione semantica per cui si indica normalmente la parola tintinnatu nel senso di imbrattato, pitturato, thithiedatu, mascherato con il volto annerito di fuliggine. In realtà il sostantivo ha subito un cambiamento di significato: inizialmente era riferito al suono, al “tintinnio” dei sonagli, esattamente come risulta in innumerevoli lemmi che si trovano con declinazioni differenti in testi latini, come tintinnabulis, tintinnabant, tintinnabulum, tintinnaculos, tintinnire, tintinnat[9].
Sempre con riferimento a questa denominazione troviamo lo stesso termine con alcune varianti sempre nel contesto del carnevale a Olzai con “sos intintos”, a Ovodda con sos intintos[10], e a Orotelli sos titinnaios[11]. In questo senso è riscontrabile una evidente affinità linguistica con il contesto siniscolese[12]e iconografica per la presenza dei sonagli che cadenzavano una danza e per il mascheramento del volto.[13] In questa direzione è anche possibile ipotizzare una profonda affinità tra i carnevali sardi di quest’area del Nuorese, che si sviluppano con alcune varianti ma che probabilmente hanno un’origine comune.
Per altri versi bisogna soffermarsi sul motivo della questua, che ricorda l’Angius, l’andare di casa in casa e di ricevere doni e di non ritornare nelle proprie abitazioni se non prima di essere rigalati di lardi, salsumi, o ravioli, che potevano essere banchettati successivamente alla visita nelle case. Un motivo, quello della questua, che trova rispondenze anche in altre rappresentazioni carnevalesche[14]: nella Barbagia, a Isili, a Bosa, a Olbia, a Bolotana. In questo senso, come risulta da fonti orali, si ricorda l’uso di una bisaccia impiegata in modo scherzoso (anche con ortica o rovi all’interno) o in origine molto probabilmente come contenitore per raccogliere i doni[15].
La questua ricorda anche quella de su peticocone de sos mannos e de sos pitzinnos tra il primo e il due novembre. In questo senso sarebbero da mettere in relazione i due eventi che avvengono in tempi diversi ma forse anche in relazione tra loro: il carnevale de sos tintinnatos e su peticocone, uno tra ottobre e novembre, l’altro tra febbraio e marzo, ossia in chiusura e in apertura di una fase agraria.[16] Considerando queste affinità con altre attestazioni del Nuorese, la maschera de sos tintinnatos di Siniscola andrebbe osservata esattamente come avviene per altre rappresentazioni del carnevale barbaricino. Per esempio tra sos tintinnatos e il carnevale di Mamoiada si riscontrano elementi di confronto nell’impiego dei sonagli appesi alla cintura, nel travestimento della propria identità. Sulla base di questi elementi si potrebbe pensare a un’origine comune per i carnevali sardi, che trovano rispondenza in quelle prime descrizioni di età paleocristiana riferite a un contesto pagano[17]. In questo senso è condivisibile l’idea di una sopravvivenza di arcaismi nel mondo moderno, una sorta di resistenza nella modernità che si verifica in Sardegna come in diverse altre espressioni (linguistiche, figurative, artistiche), in altri termini un’altra, inconsapevole, permanenza (Lilliu, 2007) di un retaggio arcaico, primordiale, realizzato in ambito sardo attraverso il filtro della cultura romana trasferita e forse mutuata in forme popolari nelle province prima di altre successive sedimentazioni culturali.
Sotto il profilo metodologico, è necessario muoversi, come suggerisce cautamente Raffaello Marchi, con le congetture, con le ipotesi[18]. In questo senso è interessante pensare ai Mamuthones di Mamoiada come “una celebrazione storico-leggendaria”, come chiaro riferimento alle incursioni saracene nell’Isola[19].
Sappiamo che la denominazione di carrasecare ha anche a che fare con il taglio della carne e va collocato nei giorni che precedono la Quaresima fino al martedì grasso e dunque riferito a un momento dell’annata agraria che vede la fine dell’inverno e l’inizio della primavera nel quale è possibile ravvisare un cerimoniale augurale in vista dell’inizio della nuova stagione agraria. In questa prospettiva una possibile pista di interpretazione da percorrere è quella della danza che costituisce nel caso dei Mamuthones-Tintinnatos «la struttura più arcaica», un aspetto che gli conferisce il carattere di «una cerimonia solenne, ordinata come una processione». La presenza di «molti sonagli appesi alla cintura» come ci segnala l’Angius evidenzia la componente musicale del rito per altri versi richiamata dalla denominazione onomatopeica. Proprio in questa direzione può essere interessante un’altra ipotesi più avvincente che sottrae la rappresentazione a un fatto storico contingente di carattere locale (R. Marchi, 1951) e permette di identificare invece un tratto più comune ai carnevali del Nuorese. Si tratta di condividere più credibilmente l’idea di un cerimoniale probabilmente più arcaico di epoca preromana: una prospettiva convincente aperta da tempo in un interessante articolo di Giovanni Lupinu che stabilisce un raccordo tra le danze dei Mamuthones e le danze saliche.[20] Su questa linea lo studioso riprende un’ipotesi formulata da Massimo Pittau tra danze saliche e i mamuthones di Mamoiada[21]. Le danze saliche erano danze effettuate in onore del dio Marte, dio della guerra ma anche divinità strettamente legata al mondo agricolo[22]. In questo senso bisogna ricordare che il carnevale rappresenta un momento di disinvolta e irruente libertà, la manifestazione di un’espressività primigenia, strettamente contigua alla dimensione agropastorale[23]. Sulle modalità di questa danza rituale e militare allo stesso tempo sono molto importanti le letture di G. Saronno[24], di Frazer, che evidenziano come i danzatori fossero rappresentazioni di «demons of blight and infertility», ossia demoni della rovina e dell’infertilità. In questo senso seguendo questa interpretazione proposta convincentemente da Giovanni Lupinu «i tintinnatos come i mamuthones», sarebbero «relitti di preistoria contemporanea», figure apotropaiche che tentano di espellere i demoni per augurarsi la fertilità e l’abbondanza agraria. Qui è interessante la connessione tra le danze saliche e le uscite dei tintinnatos prima della quaresima, in genere in corrispondenza con l’inizio di un nuovo ciclo[25]. La figura maschile individuata tra i tintinnatos, nel racconto dell’Angius (“arrestano il pastore quando che venga all’incontro e lo conducono a casa”), potrebbe infine corrispondere alla personificazione individuata nell’interpretazione del Frazer[26].
La loro danzante visita nelle case avrebbe dunque l’effetto apotropaico, ossia quello di allontanare gli spiriti maligni (dal greco greco antico apotrépein, “allontanare”). La danza a saltelli secondo il ritmo dei sonagli è da interpretare come un inno alla crescita delle messi e dei raccolti.
Come interpretare infine la maschera della partoriente? Aspetto che compare in altre realtà sarde[27]. Forse un tentativo di esorcizzare il dolore femminile rappresentandolo in una dimensione comica e irreale, estraniante come è la dimensione del carnevale? O forse più credibilmente come parte integrante di un antico rituale di carattere propiziatorio strettamente legato alla presenza dei tintinnatos, per augurare la fertilità e la natalità nelle case e nelle famiglie visitate?
Viste queste possibili ipotesi interpretative che possono ancora essere lasciate aperte in attesa di ulteriori riscontri, ci rimane un altro interessante avvicinamento al fenomeno sotto il profilo metodologico: quello proposto con rigore da Luisa Orrù[28], ossia quello di repertoriare il fenomeno contesto per contesto raccogliendo le attestazioni rinvenibili, in modo da avere un quadro anche di carattere comparativo più o meno completo sui suoi diversi aspetti e sulla terminologia che attiene a un’unica area circoscritta e può presentare profonde affinità. In questa prospettiva, anche ai fini di un arricchimento della documentazione esistente sono importanti le denominazioni rintracciabili nella lingua locale[29].
Un altro aspetto non irrilevante rilevare nella descrizione del carnevale raccontato dall’Angius è quello della sartiglia siniscolese, ossia di un altro momento non secondario di queste manifestazioni: su puddu ‘e carrasecare, situato nella conclusione della festività, negli ultimi tre giorni prima della domenica:
Negli ultimi tre giorni di carnevale si fa la corsa che dicono della Sartiglia. Si appende sulla strada maggiore un gallo, Su puddu de carrasecare e una comitiva non meno di venti capitanata da uno vestito da cavaliere corre a pariglia di due. Il capo deve con la spada troncare il collo del gallo tra la corsa. Nella prima corsa deve fare colpo falso, nella seconda troncarlo, nella terza portare la testa recisa nella sua mano. Quindi i giostranti vanno nella casa del capo del gioco a far gozzoviglia. Nel gioco del primo giorno è capo il capitano dei barracelli, in quello del secondo il maggiore del prato, in quello del terzo il maggiore di giustizia [30].
La descrizione dell’Angius è di estremo interesse anche per l’assenza di altre fonti documentarie che attestino il rito della Sartiglia a Siniscola. In ogni caso appare un documento significativo per l’attestazione in quest’area dell’Isola. Anche questa espressione del carnevale è rimasta in uso nel contesto locale fino agli anni Cinquanta e poi scomparsa e più recentemente e brevemente rievocata per alcuni anni da un’associazione ippica di Siniscola. Sappiamo che quest’antica giostra equestre si teneva nell’attuale via Roma, nell’ingresso meridionale del paese proveniente da Santa Lucia, nel rione Su Ponticheddu, lungo la strada nazionale all’ingresso dell’abitato da Orosei. Di un certo significato la modalità di svolgimento con cavalli e pariglie capitanate da un cavaliere (vestito da cavaliere), probabilmente per l’occasione in un abito di gala. Di un certo interesse appare anche il momento conclusivo dei tre giorni rispetto all’intera parentesi festiva prima della quaresima.
Per il significato del termine ci aiutano le interpretazioni invalse per la più celebre Sartiglia oristanese. Tra queste va ricordata l’etimologia di origine spagnola legata al tema della sorte, della fortuna: sartiglia da sortija e questa dal latino sorticula (anello), diminutivo di sors) come ricorda l’Alziator per la Sartiglia di Oristano[31] e che è rinvenibile in espressioni locali (chi tenzas sorte ‘ona). Anche la sopravvivenza del termine sartiglia in quest’area centrorientale dell’isola attesta della comune origine iberica del rito. Ma tra le notevoli differenze vi è la variante della giostra. La corsa per decapitare il gallo (non per infilzare l’anello), come in altre attestazioni di origine medievale. La corsa per il gallo, su puddu, su palu ‘e su puddu o su puddu de carrasecare, che sembra inoltre sopravvivere nel ricordo nei centri di Bitti e di Lodè, comuni situati a poca distanza da Siniscola, ricordati nella memoria orale fino alla metà degli anni cinquanta del Novecento e rimasti in uso ancora oggi a Sedilo, Pozzomaggiore, e in alcune altre località dell’oristanese[32]. A evidenziare l’importanza della sartiglia, come momento conclusivo di carattere augurale della parentesi festiva del carnevale, è la presenza nei tre giorni conclusivi delle maggiori autorità cittadine: il capitano dei barracelli, il majore de justissia e de campo. La loro simultanea presenza durante la corsa conferma quel carattere solenne e rituale che si ricorda per gli eventi menzionati nei documenti per la Sartiglia di Oristano[33]. Per quanto riguarda le origini della corsa equestre di Siniscola si potrebbe pensare che affondi in quel Medio Evo fantastico forse precedente all’arrivo degli aragonesi nell’Isola e che si svolgeva in quelle forme della cavalleria secondo un cerimoniale che doveva essere più complesso rispetto alle sobrie informazioni fornite localmente dell’informatore dell’Angius. Su questi aspetti rimandiamo a ulteriori approfondimenti e alla conoscenza di altre attestazioni documentarie.
In questa breve e ancora imprecisa descrizione del carnevale locale bisogna ricordare ancora una volta il breve opuscolo dell’associazione Sos Tintinnatos e l’auspicio che i soci possano continuare con lo stesso entusiasmo le loro rappresentazioni anche favorendo momenti di incontro come quello attuale, in modo da ricavarne ulteriori dati e informazioni utili per una ricostruzione sempre più chiara del fenomeno.

[1] Su questo aspetto si vedano le riflessioni di Diego Carpitella, in “Il Carnevale in Sardegna”, a cura di Mario Atzori, Luisa Orrù, Paolo Piquereddu, M. Margherita Satta, Editrice Mediterranea, Cagliari 1989, pag., 9: ”Un carnevale è uno snodo di vari elementi formalizzati: temporali, spaziali, cinesici, gestuali, prossemici, alimentari, ideologici, oggettuali, ecc. “,
[2] Al proposito l’intervista del sottoscritto raccolta in data 27 aprile 2025 alle sorelle Maria e Anna Mulargia, rispettivamente nate a Siniscola il 17.02.1928 e il 29.03.1935. Sul carnevale con i Tintinnatos ricordano la sua esistenza negli precedenti la Seconda Guerra Mondiale, interrotti durante il conflitto e poi ripresi nel secondo dopoguerra, fino a un’interruzione definitiva negli anni Sessanta.
[3] Sui cambiamenti in questi anni nella società Sarda agropastorale si veda Bachisio Bandinu e Gaspare Barbiellini Amidei, Il re è un feticcio (1976), ora nelle Edizioni Ilisso, nella collana La Biblioteca Sarda, 2003.
[4] Sull’intervento della chiesa è significativo il riferimento alla predicazione del gesuita Padre Giovanni Battista Vassallo nel racconto di Buonaventura Demontis Licheri che nel Settecento accompagnava nei paesi dell’interno, le cui predicazioni ebbero gli effetti nell’indurre ad «abbandonare in parte i travestimenti». In Dolores Turchi cit., pag., 51.
[5] Sulla componente dionisiaca nei carnevali sardi, in Dolores Turchi, I Carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna, Newton Compton Editori, Roma 2018, pp.7-9.
[6] Abate Vittorio Angius, in Dizionario Storico Statistico commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, 28 voll., Torino, 1834-1856, alla voce Siniscola, in edizione anastatica, vol. 3, pagg. 213-14.
[7] Si veda nelle interviste citate nella nota 2. Una descrizione che conferma la presenza dei sonagli, marrazos, il viso dipinto con il carbone e la fuliggine, la presenza di maschi e femmine e un procedere per comitive verso le case anche con una bisaccia (bértula) probabilmente impiegata per la raccolta dei doni dalle famiglie.
[8] Tra le attestazioni più recenti si veda Salvatore Colomo, Sardegna immagini del carnevale, Editrici Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2015, pp. 132-133. Si tratta di una delle rare ricognizioni di carattere fotografico e descrittivo dei Tintinnatos appena successive alla fondazione dell’associazione Tintinnatos di Siniscola (2010). Il testo è stato elaborato sulla base delle testimonianze orali e riporta una breve descrizione del carnevale siniscolese nelle sue tre espressioni: tintinnatos, Re Giorgio e su puddu ‘e carrasecare.
[9] Si veda al proposito nel database della lingua latina Lybrari of Latin Texts, dove compaiono oltre 300 lemmi che richiamano la parola tintinnat.
[10] In Dolores Turchi, op. cit., pag. 34 la seguente descrizione: «Il carnevale di Ovodda si distingue dagli altri perché coinvolge tutto il paese. Le maschere prendono il nome di”intintos” e ciascuno si maschera come vuole. Si tingono il volto di nero e lo tingono anche alle persone che giungono nel paese durante il carnevale, perché tutti diventino partecipi della festa».
[11] In Dolores Turchi, op. cit., pag. 21, ma con riferimento a un elenco di maschere orotellesi effettuato da S. Merche, in Folklore sardo orotellese, Nuoro 1940, uno studio riprese più recentemente da Lorenzo Pusceddu.
[12] In Dolores Turchi, con riferimento al saggio del Merche, in op. cit., pag 22: «carichi di sonagli, tintinnos, presumibilmente non molto dissimili dai Mamuthones. Su Tintinnatu era presente anche a Siniscola e l’Angius ne fa cenno nel Dizionario del Casalis».
[13] In Dolores Turchi, cit., pag. 47: «Ancora le maschere sarde eseguono una danza zoppicante e una serie di saltelli battendo forte i piedi al suolo, quasi a volere risvegliare la vegetazione che dorme sotto il torpore invernale. Danza sacra come nella festa del Pesah, per simboleggiare un ritmico passar oltre, dallo stato naturale a quello di estasi, di posseduto, di colui che si trova in balia del dio. Questa esaltazione mentale veniva accentuata dal frastuono dei campanacci e dagli strumenti musicali che le maschere portavano con sé con funzione apotropaica».
[14] In Luisa Orrù, Maschere e Doni Musiche e Balli, Carnevale in Sardegna, C.U.E.C, Cagliari 1999, pag 258.
[15] Al proposito l’informazione risulta nell’intervista del sottoscritto citata nella nota 2, raccolta in data 27 aprile 2025 alle sorelle Maria e Anna Mulargia, rispettivamente nate il 17.02.1928 e il 29.03.1935.
- Sul motivo della questua riportiamo l’interpretazione del Meuli a proposito dei Mamuthones di Mamoiada, ripresa anche da Paolo Piquereddu, in Il Carnevale in Sardegna, op.cit., Mamutones e Issohadores a Mamoiada, pag. 17.
[17] Si veda al proposito in Dolores Turchi, I Carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna, Newton Compton Editori, Roma 2018, pag. 16 sulle osservazioni di Sant’Agostino e di altri autori tardo antichi.
[17] Su questo significato riportiamo l’interpretazione del Meuli a proposito dei Mamuthones di Mamoiada, ripresa anche da Paolo Piquereddu, in Il Carnevale in Sardegna, op.cit., Mamutones e Issohadores a Mamoiada, pag. 17.
[18] Raffaello Marchi, Mamuthones, in “Il Ponte”, …1951; attualmente anche in una recente edizione con il titolo “Le Maschere Barbaricine”, a cura di Angelino Mereu, Nardini Editore, Firenze 2024.
[19] La tesi di Raffaello Marchi è ripresa anche da Maria Margherita Satta, in Maschere e corpi nella rappresentazione del carnevale barbaricino, in Maschere, a cura di Piero Pes, Stampa Color Industria Grafica, Sassari, 2000, pag. 11.
Rappresentazioni di uomini dal viso scuro, di mori che irrompono nelle case, depredando e riducendo in schiavitù. Questa interpretazione potrebbe essere oltremodo pertinente nel caso di Siniscola. Paese costiero che nel Cinquecento ha subito diverse incursioni nell’abitato. Veri e propri traumi storici forse mai elaborati collettivamente. Secondo questa interpretazione anche i tintinnatos sarebbero da intendersi come una rievocazione di quei mori predatori, saccheggiatori e distruttori, autori di violente incursioni nelle coste sarde e della Baronia. Un’ipotesi che potrebbe essere ancor più convincente se pensiamo che la descrizione dell’Angius è del 1833 e che solo nel Congresso di Vienna (1815) fu abolita la schiavitù e che gradualmente pose termine alla pirateria nel Mediterraneo, dunque in tempi non molto lontani da quegli episodi, rimasti vivi nella memoria locale.
[20] Giovanni Lupinu, Riti agrari in Roma antica e nella Barbagia attuale, in Quaderno Bolotanesi, n. 20, 1994, pp.319-333.Sulle danze degli antichi salii si veda Giulia Sarullo, Danze rituali nella Roma arcaica. Tra processioni saliari e Lusus Troiae, in Mura tarquiniesi. Riflessioni in margine alla città, a cura di Giovanna Bagnasco Gianni, Le Edizioni, Milano 2018. Sulla danza saliare si veda inoltre il sintetico riferimento a Giulia Sarullo in https://it.wikipedia.org/wiki/Mamurio_Veturio#:~:text=Mamurio%20Veturio%5B1%5D%20%C3%A8%20un%20personaggio%20semi-mitico%20della%20storia,l%27%20Ancile%2C%20uno%20scudo%20sacro%20disceso%20dal%20cielo
[21] Massimo Pittau, in Origine e parentela tra i sardi e gli Etruschi ,saggio storico-linguistico, e in La Sardegna Nuragica, Delfino, Sassari 1977.
[22]Le danze costituite da 12 danzatori (12 sono i mesi dell’anno) procedenti a saltelli con l’ancilia[22] procedevano per la città visitando i templi e gli altari più rappresentativi in modo da allontanare le impurità accumulate nel corso dell’anno e per augurare la fertilità dell’anno agrario e che si tenevano il mese di marzo e di ottobre.
[23] Sul mimetismo del carnevale con il mondo agropastorale si veda Margherita Satta, in op. cit., pag. 14.
[24] Sulle origini delle danze saliche si ricorda sempre Giulia Saronno, cit., pag. 90: «Al secondo re di Roma, Numa, è invece attribuita l’istituzione del sacerdozio dei Salii e, di conseguenza, della danza armata romana per eccellenza, ovvero la cerimonia saliare. Non è questa la sede per ripercorrere nei dettagli la storia di questa sodalitas e le questioni ad essa connesse, cosa che trascenderebbe gli scopi e gli spazi di questo contributo Qui basterà ricordare che i Salii erano dodici sacerdoti preposti da Numa alla protezione dell’ancile caduto dal cielo come segno divino e delle undici copie di questo prodotte da Mamurio Veturio. In occasione di alcune festività concentrate nel mese di Marzo ”. i Salii danzavano, imbracciando le armi con le quali producevano il ritmo che scandiva i loro movimenti e accompagnava la recitazione dei versi del Carmen Saliare»..
[25] In Giulia Saronno, cit, pag. 92: «L’inizio – specie di una ciclicità – rivestiva un’enorme importanza nell’Italia antica, testimoniata da rituali esplicitamente connessi con l’inizio di un nuovo ciclo; forse non è un caso che nel Carmen Saliare si invochi Giano, dio degli inizi e dei passaggi».
[26]Ossia “una personificazione della moltitudine degli spiriti maligni che pullulano nell’aria”; si veda in J.G. Frazer, riportato da Giovanni Lupinu, in op.cit., pag. 324, e in OVID’s, Fasti, whit english translation, by J.G. Frazer, London 1967, pagg.400-402.
[27] Sulla maschera della partoriente si vedano i riferimenti di Dolores Turchi, in op. cit., e Silvia Orrù.
[28] Si veda di un certo interesse il saggio “Il Carnevale in Sardegna”, a cura di Mario Atzori, Luisa Orrù, Paolo Piquereddu, M. Margherita Satta, Editrice Mediterranea, Cagliari, 1989; più compiutamente, sotto il profilo metodologico appare di grande interesse il saggio apparso postumo di Luisa Orrù a cura di….Fulvia Putzolu e Teresa Usala, Maschere e doni, musiche e balli Carnevale in Sardegna, C.U.E.C:, Cagliari 1999.
[29] Nel caso dei Tintinnatos sono interessanti gli elementi raccolti nel testo con riferimento alle personificazioni, alle maschere, alle questue e ai doni e alle denominazioni. Si veda al proposito nell’indice del saggio citato a pag. 370 e più analiticamente nelle pagine indicate. Per un primo repertorio dei termini rinvenibili nel contesto di Siniscola, nell’area semantica del carnevale, si possono ricordare le seguenti voci: bisera: bisera come maschera. La stessa espressione ti achene a bisera, o ti iuchene a bisera, locuzioni rinvenibili nei paesi vicini che presentano affinità linguistiche[29]; batile: indumento di poco valore, vestiti di scarso valore; carozza: da cara, sostantivo dispregiativo, nel senso di altro viso, che quindi maschera che copre il volto; carrasecare: la denominazione del carnevale, da secare sa carre, o carre de secare[29], tagliare la carne, con allusione al periodo dell’abbondanza che precede l’astinenza e il digiuno nella quaresima; mamuthone: “pares unu mamuthone, est unu mamuthone”, nel senso di persona goffa, vestita male; ma anche a indicare lo spaventapasseri[29]; marrazzos: campanacci; orcu: tra le attestazioni rinvenibili il sito archeologico di Sa Prejone ‘e s’Orcu, o espressioni idiomatiche popoplari come pares un orcu, forte comente un orcu ….[29]. partoriente: su questa figura è sempre utile sempre il riferimento dell’Angius e di Dolores Turchi che ricorda questa figura anche nel carnevale di Lula e di Ottana[29]; sonazos: insieme di campanacci; tintinnatu: la maschera ricordata dall’Angius; thithiedu: il colore della fuliggine.
[30] In Angius, op. cit., vol. 3, pagg.213-14.
[31] In Francesco Alziator, La Sartiglia, prima edizione del 1969, Antonello Sequi Editore, Cagliari 1969; nell’edizione più recente a cura di Maura Falchi e Raimondo Zucca, Gruppo Editoriale Zonza, Cagliari 2007. Per l’etimologia si veda a pag. 42; «Che l’area di provenienza sia quella spagnola non ci pare possano esserci dubbi, costituendo la denominazione sartilla come un elemento che oserei dire decisivo. Sartiglia deriva dallo spagnolo sortija e questa dal latino sorticula (anello) , diminuitivo di sors. Circa il valore di sors, con l’implicito e pregnante senso di fortuna, diremo che esso è tuttora presente nelle aree romanze più conservative come quella sarda e quella lusitana, in espressioni come il sardo ancu tengas sorti (che possa avere fortuna), non ha tentu sorti (non ha avuto fortuna) ed il portoghese boa sorte (buona fortuna)».
[32] Su questa forma del carnevale si veda Carnevale e giostre a cavallo in Sardegna di Mario Atzori, in Il Carnevale in Sardegna, op. cit., pagg. 95-103. La sartiglia siniscolese sembra molto simile a quella di Sedilo anche per la denominazione (“su palu ‘e su puddu”).
[33] Su questo aspetto si veda l’interessante articolo di Maura Falchi e Raimondo Zucca, in Alziator, cit., pag. 22, dove si riportano alcune di quelle solennità ricordate nei documenti anche cinquecenteschi nelle quali si teneva ricorreva la Sartiglia.
Si ringrazia l’associazione “Tintinnatos” di Siniscola e l’amico Giovanni Strinna per i preziosi suggerimenti bibliografici.